Oi ne'!

capitale periferia


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10 testi inediti “Se faccio un figlio lo chiamo Precario… scusate il ritardo!”

Venerdì 28 dicembre 2018 al Circolo Arci Marea si è tenuto il secondo incontro “Se faccio un figlio lo chiamo Precario” nell’ambito della rassegna Oi ne’ – esperimenti provinciali.

C’è sempre qualcosa in sospeso mentre rincorriamo quel tempo che ci ricorda i nostri ritardi. Per noi la scrittura, la lettura, la musica sono strumenti per animare intelligenze e sensibilità, per sfidare il Buio della narrazione unica. Oi ne’ è un grido. Ti sveglia, ti sollecita. Ti fa tornare coi piedi in terra e guardare al reale.
Ancora una volta, dopo 3 anni, vogliamo costruire un ponte sugli abissi del nostro quotidiano, ancora una volta lo facciamo tutti insieme, con leggerezza e passione.

Qui i 10 testi inediti, scegli e leggine uno, oppure clicca qui per leggerli tutti.

marco mastrandrea scusate il ritardo

rosamaria romanelli come stai?

felice rubino miseria e nobiltà

emanuele siano il filo

giuseppe criscito no future best future

salvatore tancovi keep on movin’

marco giordano scusate

carlo arcioni prima dell’alba

paolo battista marcio

giovanna pentella se sei precario anche la testa ti ha fottuto


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10. Se sei precario, anche la testa ti ha fottuto

Di seguito i 10 testi inediti prodotti in occasione della serata “Se faccio un figlio lo chiamo Precario… scusate il ritardo!” del 28 dicembre 2018 al circolo Arci Marea.

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Se sei precario, anche la testa ti ha fottuto
di Giovanna Pentella

Non so che fare.
Sono due ore che sono seduta su questa sedia. Forse 4.
Tic tac, tic tac. L’orologio sopra la mia testa continua a camminare.
Muovo le pupille, seguo i movimenti della polvere. Seguo il fuoco che si alza e si abbassa.
Tutto si muove. Non io.
Un giorno hai deciso di lasciarmi. Proprio qui, su questa sedia. E non ti ho visto più.
O forse sì. O forse no. Non lo so.
Eri tu o non lo eri?
Mi gira la testa.
Non capisco.
Sono 2 minuti che mi sono alzata da questa sedia. Forse 4.
Mi tremano le gambe. Non reggono.
L’orologio non cammina più.
Ma dove sei? Non capisco.
Volevo dirti che, che. Magari non te lo dico. Magari te lo dico poi. Magari ora.
Mi gira la testa, non capisco.
Mi aggrappo alla sedia e cado.
Cado in ginocchio sul pavimento.
Fisso la sedia accanto a me. L’accuso di tradimento.
Poi mi lascio cadere del tutto.


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9. Marcio

Di seguito i 10 testi inediti prodotti in occasione della serata “Se faccio un figlio lo chiamo Precario… scusate il ritardo!” del 28 dicembre 2018 al circolo Arci Marea.

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Marcio
di Paolo Battista

L’odore della salsedine riempie le narici. Non è vero, quello che si dice, non è vero che, una volta morti, si i sensi scompaiano del tutto. L’olfatto funziona benissimo, e se è per questo anche l’udito. Ed il gusto. Mentre vado avanti senza sosta insieme a tutti i fratelli, mi sembra ancora di percorrere il lungomare della mia città Natale, quella delle lunghe passeggiate al sole tenue di dicembre, fino all’imbrunire. Dopo il tramonto, si riempiva di topi e tossicodipendenti. Bei tempi, ero un bambino.

Sono in cammino da giorni, da mesi, o da anni. Ecco, questo è vero. Man mano la percezione del tempo si altera, si attenua. Sembra tutto un loop maleodorante, un palinsesto fluviale di volti, lamenti e corpi. Marcio, marciamo tutti. Finalmente, dopo mille tentativi, sforzi vani, vuoti, ed inutili profusioni di forza, tempo ed idee, marciamo, uniti: “verso il palazzo”, direbbe il comandante. Verso il potere, perché alla fine esso sia nostro, e sia distrutto.

Ricordo bene Seattle. Ricordo bene Napoli, Genova, Göteborg, e Roma. Le ricordo piene di volti, di canzoni, di segni della pace e volti coperti. Ho ancora davanti agli occhi le bandiere rosse, quelle rosse e nere. La A cerchiata, la falce e martello. Ricordo i discorsi di una generazione, la mia, che non volle piegarsi ad un destino segnato, ad un binario dritto e costruito con zelo da altri per noi, puntellato di Pil e crisi economica, di Schengen e confini aperti e chiusi a comodo. Ricordo, ed anche questo contraddice la credenza popolare, ricordo perfettamente tutto. Ricordo le ragazze francesi, spagnole, inglesi. Ricordo il fumo dei vostri lacrimogeni. Ricordo un giorno triste di luglio, Fini rivendicare l’assassinio in tv e dire “Gli Italiani hanno visto”. Certo, avevamo visto e sentito. E non eravamo solo italiani. Genova poteva bastare, ma non fu così. Volevate andare fino in fondo. Volevate tutto e subito. Invadere Iraq e Afghanistan, esportare la democrazia ed in cambio ricevere petrolio ed oppio, riempire di nuovo le strade delle grandi città di eroina e metanfetamina, mentre ad est creavate un esercito di tagliatori di teste, spietati ed ottusi, perché l’opinione pubblica potesse concentrarsi verso un nuovo nemico. Ma stavolta, stavolta è diverso. Simboli, in questa lunga marcia, non ne portiamo. Nessuna bandiera garrisce al vento maleodorante che spira sul mediterraneo. Ci sono solo i nostri corpi, ciondolanti, o quello che ne resta. I morti in mare si gonfiano, il sale scava dei solchi, e capita che anche il pesce più piccolo vi stacchi un pezzo.

Mentre mi giro a guardare i volti senza espressione dei miei compagni di marcia, mi viene da ridere, e lo farei, se soltanto fossi ancora in grado di controllare il muscolo zigomatico maggiore. Mi viene da ridere, se penso che la mia generazione, nel frattempo, è rimasta incollata alla ricerca di un lavoro, di una stabilità emotiva ancor prima che economica. Ci ha spazzato via non il vostro piombo, non la vostra eroina, non la vostra “democrazia”, ma il semplice progredire dell’età. La precarizzazione di ogni aspetto dell’esistenza ha eroso il tempo e la forza da dedicare alla lotta contro di voi. Non potevate batterci diversamente, avete impedito che potessimo combattere.

La nostra potenza, le nostre capacità, sono andate a sbattere contro i bisogni materiali, contro il diminuire progressivo dello stato sociale. A pensarci adesso, sembra tutto privo di senso. Le notti insonni ad organizzarci, ora che per me non esiste né notte né giorno, sembrano prive di significato. Il ripararsi dai vostri colpi, ora che non sono più in grado di sentire dolore, mi appare lontano. La scelta non violenta, il non aver preso le armi, il bisogno di volerci difendere con le parole, con il comportamento, con l’esempio: tutto questo oggi lo vedo con distacco, ed è merito vostro.

Ma è un discorso privo di senso, riflessioni stanche di un rifiuto della storia. Anche la vostra vittoria, ora lo so, è stata effimera. Siete rimasti vittime della tracotanza, della Hybris, pensavate di poter far tutto, ritenevate che oramai la Storia, con la esse maiuscola, fosse finita, oppure che fosse dalla vostra parte. Vi sbagliavate.

Su come tutto questo sia cominciato, sebbene sia ormai di nulla importanza, circolano numerose ipotesi. L’inquinamento secondo gli ambientalisti, la vendetta di Dio secondo gli ignoranti, e così via…

Quella che mi dà più soddisfazione è quella riportata nell’ultimo articolo scritto da Gianni Riotta, un altro dei benpensanti di regime, all’indomani della visita di Toninelli a Trump. Ma, dico, quando avete avuto l’idea di mandare Toninelli all’estero, cambiandogli l’incarico dalle infrastrutture alla Farnesina, potevate immaginare che, ricevuto da Trump, avrebbe scatenato la terza guerra mondiale: c’erano tutti gli indizi. Molte guerre sono cominciate per colpa di un cretino. E, invece, la vostra supponenza vi ha puniti, tutti.

Comunque, la scena ha del comico. Toninelli, ricevuto nella stanza ovale, guarda Trump e schiaccia un tasto a caso sul tavolo, dicendo: “uot iz diz?”. Lo schiaccia ben bene, con forza, ancora prima di fare la domanda, mentre il parruccone miliardario è intento ad accendersi un sigaro. E poi il resto è noto. I missili Usa che vanno verso Russia, Corea e Cina, e la risposta di Putin: i sottomarini nucleari che esplodono, le radiazioni sottomarine che creano l’apocalisse, i morti che risorgono e tutto quello che consegue. Insomma siamo usciti dalla storia per la porta principale per rientrarci dalla finestra di un film dell’orrore. Peccato, per voi si intende, che sia un documentario.

E allora, siamo di nuovo in marcia, tutti, e, da morti affamati di carne umana, abbiamo finalmente rotto i confini, gli argini, le prigioni nelle quali pensavate di averci rinchiusi. Siamo milioni, in tutto il mondo. Lo so, perché so quanta morte avete seminato, ed anche perché ci unisce una vibrazione, un suono nei recessi della mia mente, mi sembra quasi che ci sia una sola coscienza diffusa, che ci spinge a mangiare, mangiare senza sosta…

L’odore della salsedine, mentre emergo dal mare insieme ai fratelli ed alle sorelle africane, a tutti i morti uccisi dalla vostra colpevole indifferenza, riempie le narici, sovrapponendosi a quello della carne marcia, la nostra. Marcio e marcisco, ma la consapevolezza resta. È svanito il dolore, quello sì. Vorrei anche dire, se ancora riuscissi a parlare, vorrei dire “ve l’avevo detto io”. Ma ho fame. E mangio. Staccare braccia, gambe, lo schioccare sordo di un braccio spezzato, di un femore staccato dalla sua sede naturale, ed il rumore della masticazione, ecco, non posso chiamarla gioia, perché non provo più sentimenti, ma un pochino di soddisfazione, nel pensare alle vostre facce di cazzo in poltrona, mentre date ordini alla governante, incapaci di credere al racconto del telegiornale, la provo. È gioia? Non credo.

La fine si avvicina, e stavolta i precari siete voi.


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8. Prima dell’alba

Di seguito i 10 testi inediti prodotti in occasione della serata “Se faccio un figlio lo chiamo Precario… scusate il ritardo!” del 28 dicembre 2018 al circolo Arci Marea.

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Prima dell’alba
di Carlo Arcioni

Viveva più di ogni altro ma non come voleva. Avrebbe potuto girare il mondo; avrebbe potuto vivere la notte come fosse giorno. Avrebbe potuto avere mille storie da raccontare. E invece no. Di storia ne aveva una sola. La giornata iniziava prima dell’alba e finiva sempre molto tardi. Dormiva poco e sognava ancora meno. Le giornate erano dedicate al lavoro che solo a volte lo faceva sentire libero.

Non sapeva molto di sé ma di una cosa era certo: non poteva stare sotto padrone. Ci aveva anche provato ma niente, non ce la poteva fare. Nemmeno mezza giornata poteva reggere sotto padrone. Sarebbe stato comodo ma niente da fare.

Viveva in una città piccola sul mare, di notte guardava le barche illuminate rifrangere flutti e luci. Era quasi bello essere svegli a quell’ora, poter ammirare il mondo mentre gli altri sono ancora nel letto a dormire. Lo faceva sentire un po’ il padrone. Amava le strade sgombre davanti al suo parabrezza, quando sarebbe tornato poche ore dopo sarebbero state intasate.

Ogni mattina si alzava prima dell’alba, beveva il caffè e rollava una sigaretta. In quel momento, era il suo silenzio nel suo mondo. Il resto del giorno era andare avanti e indietro da un posto all’altro con l’orologio che gli ricordava di essere in ritardo. Lui guardava l’orologio e rispondeva: “non sono in ritardo, è che mi piace farmi desiderare”. Proprio questa battuta detta tanto per ridere della sua condanna, usata una volta in un locale, la fece ridere. Era bellissima. Sapeva che non poteva avere una relazione, sapeva che non avrebbe trovato il tempo, sapeva che sarebbe stato sempre in ritardo se non assente. Ma si convinse senza troppo ragionarci che andava contattata.

Ogni giorno si vedevano dopo lavoro. Non poteva pensare di vivere solo per lavorare. Durante il giorno la pensava spesso, avrebbe voluto trascorrere più tempo con lei. La notte dormiva tre ore o poco meno e faceva un piccolo riposo alla fine del giorno, il resto non era altro che lavorare e stare con lei.

Una sera, la trovò davanti la porta di casa, seduta su uno scalino. Era bellissima. Sceso dalla macchina si avvicinò con un sorriso pieno, lei stava rigida sul cemento. “Scusa il ritardo, è che mi piace farmi desiderare” disse scherzando, ma lei aveva un ritardo. Non era uno scherzo, stavolta era lei ad avere un ritardo.

Come sarebbe stata la vita con un figlio? Non ho tempo, pensava. Non ho tempo per me, non ho tempo per il lavoro, non ho tempo per una famiglia, non ho tempo per un figlio.

Il caffè del mattino era bruciato, il silenzio prima dell’alba lo stringeva, le mani tremavano quando si rollava le sigarette. Il mare si agitava, sperava che quella barca si frantumasse contro lo scoglio. Tifava burrasca.

Magari c’era un modo: avrebbe potuto riprendere il tempo, abbandonare i gesti ripetuti, i doveri di ogni giorno. Poteva trovarsi un lavoro e mollare quanto aveva costruito fino a quel giorno. Ma era veramente disposto a farlo? Sarebbe stato capace di buttare via quanto aveva costruito fino a quel giorno? Sarebbe stato capace adesso di stare sotto padrone?

I giorni delle domande, dei dubbi e delle ipotesi si fermarono, alla fine non era altro che un semplice ritardo.
Quando lei glielo disse lui sorrise insieme a un respiro forte. Era sollievo, i suoi occhi non riuscivano a nascondersi. Si videro sempre meno fino al giorno in cui lei non rispondeva e lui non chiamava.

Ritornò al lavoro ma non si sentiva più libero e indaffarato. Non aveva tempo, non aveva nessuno, non era libero: era solo indaffarato.

Una mattina si rigirò nel letto dopo aver battuto la mano sulla sveglia per continuare a dormire. Lei e il figlio lo aspettavano con un sorriso, lui era pronto ad avvolgerli in un abbraccio. Lei stava per baciarlo ma si sbarrarono gli occhi d’un tratto. Come una molla saltò dal letto e più veloce di una lancetta iniziò a correre. Cazzo, era in ritardo.


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7. Scusate

Di seguito i 10 testi inediti prodotti in occasione della serata “Se faccio un figlio lo chiamo Precario… scusate il ritardo!” del 28 dicembre 2018 al circolo Arci Marea.

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Scusate
di Marco Giordano

Scusa…
Una parola ambivalente, che può esprimere significati praticamente opposti secondo l’uso che se ne faccia. Le scuse possono essere un modo subdolo per giustificare qualcosa o un’azione che abbia arrecato danni ingiustificati, quasi a voler sviare le proprie responsabilità altrove. Oppure possono rappresentare un modo per ammettere le proprie responsabilità, tentando di trovare comprensione da chi ha subìto un danno dalle proprie azioni.
Per me è una parola che associo sempre a Marco Da Giorno, un 31enne che vive al quarto piano del mio stesso palazzo, non abbiamo mai stretto un legame profondo, ma sembra di conoscerlo da sempre. Persona scontata, schiva, una tartaruga che cammina lentamente nel suo guscio. Molti lo prendono in giro come un eterno ritardatario, tanto da credere che il suo cognome gli sia cucito addosso come il suo guscio.
Ogni volta che può evita di parlare di sé, forse perché sono già troppe le persone che non gli fanno sconti nella vita. Questa città è in fondo solo un piccolo grande paese, e mi è capitato di vederne di scene. Amici di vecchia data, colleghi di lavoro, ex compagni di liceo, inquilini del palazzo, Marco Da Giorno sembra circondato da ammiratori affascinati dalle sue scadenze. E alla prima occasione di incontro tutti gli chiedono aggiornamenti sulla sua vita, come una teenager aspetta urlante e scalpitante l’autografo dello spauracchio di moda.
Quando ti laurei? E la ragazza come va? Vi sposerete presto? L’ultima volta che l’inquilino del terzo piano gli ha fatto questa domanda mi è scappato da ridere, anche se ho temuto per la sua incolumità, sapevo che Marco aveva lasciato da poco la sua compagna. Mi aspettavo di veder volare un cazzotto o quanto meno un insulto, ma, a mia sorpresa, anche Da Giorno sorrise, ma poco, annuendo e sgusciando verso il suo pianerottolo.
Marco ha anche un modo di camminare lento, scusate ma, ci credo che spesso faccia tardi. Sembra che a volte voglia passare inosservato, quasi a voler chiedere scusa al mondo che lo circonda, per non riuscire a stare al suo stesso passo. Ieri sera ancora una volta sentivo i suoi genitori sbraitare che alla sua età il padre aveva già un posto fisso, era sposato, indipendente e aspettava la prima figlia, la sorella di Marco.
Le mura di questo palazzo sono molto sottili e le orecchie sempre pronte ad ascoltare.
Scusate ma, effettivamente avere ancora 31 anni e stare in casa, mantenuto dai genitori non deve essere il massimo della realizzazione. Se penso che non si è nemmeno ancora laureato. Proprio qualche mese fa mi chiese di prestargli dei libri di liceo di matematica, i suoi li ha venduti. Mi disse che gli servivano per preparare un esame di Matematica finanziaria. Ancora non me li ha restituiti, eppure sono passate almeno due sessioni d’esame. Certo poveraccio, non deve essere assolutamente facile a 31 anni riprendere a studiare argomenti solamente accennati al liceo, a una certa età non si ha nemmeno più la stessa elasticità mentale di capire subito certe cose.
Poveraccio mica tanto, un po’ se l’è cercata. Ma, scusate, ha sempre partecipato alle proteste studentesche, a volte stava fuori interi mesi a zonzo. Una volta tornò con un dente rotto. Beh certo avevano ragione su tante cose diventate vere, però a quale prezzo? In questi anni tornava a casa di notte quando lavorava nei locali, vestito da elefante o da Peppa Pig quando faceva l’animatore per bambini, sporco di calce quando ha fatto il piastrellista o volantinaggio. Si pagava gli studi degli anni fuori corso per non gravare sulla famiglia. Osservo da sempre quello strano inquilino del quarto piano e… porca vacca è tardissimo.
Per fortuna ho i colleghi che mi timbrano il cartellino, anzi quasi quasi passo prima dal commercialista, mi ha detto che è uscito qualche altro magheggio per pagare qualche altra tassa in meno. Sant’uomo quel professionista, è grazie a lui che papà mi ha fatto prendere le borse di studio all’università.
Percorro di corsa le scale dell’ingresso e incrocio Marco che rientra, è in compagnia di un ragazzo di colore: si porta uno di quelli in casa il 23 dicembre? Ah già quello era fissato anche a fare il volontario durante gli sbarchi.
Mi fermo velocemente per gli auguri, vado di fretta, Marco mi sorride, ma poco, mi guarda dicendo: “Alhamdulillah”! Anche il ragazzo di colore inizia a ridere per la mia espressione da ebete. Marco sorride di nuovo e mi spiega il significato di quella strana espressione, dicendo che in Africa il tempo è una dimensione che appartiene ancora all’umanità, non agli orologi.
“Amico mio, in Africa nessuno ha fretta di arrivare. Perciò scusate il ritardo… il vostro”.
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6. Keep on movin’

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Keep on movin’
di Salvatore Tancovi

Guardo il computer e dico: “Io scrivo per lavoro, il mio lavoro è scrivere, è una bella cosa, non c’è niente di più onesto che essere artigiano della scrittura, di avere di che mangiare grazie ad essa, di vivere bene e avere un lavoro che gratifichi questa professionalità”.

“Di vivere bene”.

Più ci penso e più mi fa male lo stomaco. Sento una porta chiudersi e poi una tavoletta del cesso che si abbassa. Quando entra il mio collega Paolo si ferma davanti alla postazione e poggia le mani sulla scrivania, fissa la sua testa pelata e dice: “Aò, ma vvoi ssiete vicini arsuicido comunque, eh!” Di fronte a me c’è Romano che ostenta una calma finta come la sua eterosessualità, condivide il mio stesso destino essendosi anch’esso “quasi” laureato (ma in biologia) e dissimulando, quindi, una pace interiore che è quasi infelicità. “Te, Romà, c’hai pensieri oscuri e sei alafrutta. Te invece – guardando me – a te nun te ne frega propo un cazzo”.

Paolo è una persona simpatica in termini assoluti, ma anche dotato di un umorismo assassino che alla prima zaffata di imbarazzo cerca di divorarti per intero. Lo guardo e gli dico: “Paolo, com’è che tu, invece, stai sempre così bene? Perché non ti siedi e ce lo spieghi?” Ma Paolo non sta bene, non sta bene per niente da quando la donna lo ha lasciato e passa le sue serate di quarantenne guardando Netflix e fumando CBD acquistata in rete. “Voi sapé comme faccio a sta ccosì? Er segreto è che io me so rassegnato, a differenza vostra”. C’ha ragione Paolo, gli faccio sì con la testa perché sono perfettamente d’accordo con lui, di sicuro queste 8 ore del mio quotidiano, che vengono immolate 5 giorni su 7 alla causa di questa azienda di soluzioni per il web, scorrerebbero via più velocemente se non le rallentassi pensando che 8 ore sono un terzo delle mie giornate, un terzo di un mese, un terzo di un anno e via così finché la sabbia sembri risalire nell’imbuto della clessidra senza averla nemmeno capovolta.

Un contratto è una benedizione, pensavo. Livello di inquadramento a crescere, scatti stipendiali, tredicesima, quattordicesima, ferie pagate, giorni di malattia, straordinari pagati, contributi versati, TFR, bonus Renzi, pure il pranzo al ristorantino vicino l’ufficio e vaffanculo i buoni pasto. Infine, la possibilità futura ma non più remota di un’assunzione a tempo indeterminato, l’indipendenza vita natural durante dalle finanze dei genitori operai, la non più onirica visione di una vecchiaia pensionistica. Male allo stomaco fortissimo.

Prima di andare salvo al PC un ultimo pezzo del venerdì pomeriggio lasciato a metà, scritto per una campagna di posizionamento web di una nota azienda di gioco d’azzardo. La scrittura viene quasi sempre giudicata per forma e contenuti ma è certamente negli scopi che si rivela la sua grazia o la sua miseria. Non ci penso più, rimuginarci non restituirà nobiltà a questi fogli protocollo tutti uguali, ma mi farà perdere il treno. Scendo alla stazione centrale e trovo una Napoli che armeggia freneticamente il suo Natale. Mi fa piacere vedere la gente ancora inciampare nei troppi regali comprati nei negozi, qualcuno ha addirittura comprato dei rotoli di carta per fare i pacchetti. È una visione quasi romantica se messa a confronto con il via vai di pacchi Amazon che ogni giorno da metà novembre ha affollato l’ufficio dove lavoro.

Per strada, rincasando, incontro mio zio Ciro che guarda con occhi vuoti davanti a sé. La vecchiaia, i debiti, il suo stile di vita poligamico, tutte queste cose hanno consumato la sua aurea di dandy lasciandone qualche traccia nell’andatura distinta e la barba fatta.

– “O zì!”

– “Uee Totò, e che ce faj cà!?”

La voce di mio zio ha il suono che avrebbero le Merit se potessero parlare, mi cinge le spalle con il braccio e mi parla a due centimetri dall’orecchio come per farmi una confessione.

– “Uagliò chist’ann è nera. Mi ricordo cinque o sej anni fa cu a casciafort’ chiena e pacchettini. Oggi invece aggio vennuto sul duj piezz”.

Zio Ciro è un orafo, quando dice “i piezz” parla di bracciali, collanine, anelli, vai a capire se d’oro o di acciaio. Quando la camorra prosperava nel quartiere i pezzi erano solo d’oro, al massimo si contavano i carati. Croci, anelli, catene, una volta dovette addirittura realizzare una corona stile Re Artù rifinita con topazi e lapislazzuli. Gli spiego che nemmeno a me le cose vanno bene, che ora sto nella pubblicità ma non mi piace, che i soldi ci sono ma qualcosa non sta funzionando.

– “Sì uagliò, ma e vist’ comme va stu munn, o no? L’importante è glì semp annanz”.

Pure lui ha ragione, anche se avanti non ci va più. Mio zio al massimo va avanti e indietro, avanti e indietro davanti al suo magazzino, la gente gli scorre innanzi e lui saluta tutti, tranne qualcuno, ma non per cattiveria. Questi che non saluta tornano indietro e dicono: “On Cì, e perché nun m’ata salutat?” Ma non c’è proprio nessun motivo a parte i primi squilli di un alzheimer che gli farà dimenticare anche di quando incastonava pietre esotiche sulla corona di un pluripregiudicato.

Comunque è bella Napoli delle luci calde sotto i tendoni delle pescherie, i gabbiani da sopra i bastioni che aspettano una maruzza o un gamberetto scappati al cenone della vigilia, l’odore sulfureo di qualche minicicciolo sparato sul pavè dei sampietrini. Al mercato del pesce ogni nero si chiama Koulibaly, hanno calosce lunghe come tutti e si destreggiano tra la folla a colpi di “scusate o zì”. A guardargli le mani immerse nei lupini mi viene da ripensare a Tonino dell’autolavaggio e quello che mi ha detto prima che mi riprendessi la macchina:

  • “Chest è na fatic e mmerd, a stà tutt o juorn rint’ all’acqua. O no?”.

Mi viene spontaneo di dire “è certo” anche se non volevo dire che il suo lavoro era una merda. Anche lui si è fatto crescere una barba lunga stile narcos, la sua è molto disordinata, sembra più un orsacchiotto che un potente criminale. Prosegue il suo ragionamento mentre se ne alliscia un ciuffo partendo dal mento:

  • “Però sta fatic ce permett e mannà annanz a famigl”. Scuoto la testa, poi aggiunge:
  • “L’importante è crescere. Ci sta una canzone di Pino Daniele che dice ‘E a trent’anni nun può capì, ‘e canzone te fanno fesso, votta ‘ncuorpo senza sentì’, s’addeventa malamente, e quacche vota onesto. Totò quant’ann’ tieni tu?”.
  • “26” rispondo.
  • “O saj comm si chiamm’ sta canzon’?”
  • “No”.
  • “Se chiamm’ Keep on movin’” – alza un secchio di acqua e sapone con dentro una spugna – “nel senso di jamm a ce movr. Me capit Totò?”.


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5. No Future Best Future

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No Future Best Future
di Giuseppe Criscito

  • I migliori s’ann jut tutt’quant. Qua c’è ristasta sul a sfraveca.

( Al bancone, Peroni annanz, sigaretta mman, sguardo i chi nun ten nient a perd).

  • Eh, ma prima o poi tutti tornano. Nun c sta nient a fa!

( Affianco, stessa posizione, stessa birra, stesso sguardo).

  • E se poi ci restano?
  • Macchè prima o poi a tutti manca la terra sua, la terra sotto e le radici ti fanno sta in piedi.
  • No. Non hai capito. E se ci restano… rind a nu tavuto.

(Pausa… Tecnica: cambiare discorso)

  • Com’è è c’è a mett semp o’ cor. Resti o vai è quello che fa la differenza, ca t regn e che da senso al gesto quotidiano, a vott’annanz n’da stu munn e pazz.
  • M’egg rutt o cazz. E’ troppo faticoso, ogni giorno “ricordarci il senso di quello per cui stiamo resistendo”, come diceva quello famoso che fa i fumetti. E mica solo per quello in cui credi, per le tue idee e convinzioni, ma proprio per quello che sei, carne e ossa. A fun sta lla che aspett.

  • Ma s’edda fa. E non come dovere morale, sta roba non m’è mai piaciuta, ma per esistenza. Resistere è esistere. Non è più solo na questione di realizzazione, di lavori di merda, di scannarsi per le briciole del pane. Quello che è in gioco è il senso, il contenuto delle nostre storie, di quello che è davvero importante e del riconoscere la bellezza.

  • Ma o’ ver’ fai. La bellezza è na cosa sopravvalutata. Attorno a te ci sta a uerr, e nuje nun a sapimm fà. C vo u stommac. U stommac di avere a che fare tutti i giorni con la gente, con le loro fisime, le ansie, i difetti e la loro mediocrità, l’inconsistenza dei discorsi, la loro verità inamovibile colata da bocche blateranti. E quelli che ti stanno più vicini sono i peggiori. Stammece accort. E Alla fine convincono anche te di un fatto: t può firà sul e te ca si o mej e tutt quant.

  • Non so, tiniss pur ragione, ma a volte ti capita, m’iezz a munnezz di trovare una persona, quella a cui t’aggrappi forte per nun carè, per avere una speranza, per costruire un solco dove sentirsi veri. Non lo sai da dove ti viene ma lo sai, e aropp tante battaglie ti sei mparato a riconoscere quando ne vale la pena. Che fine facimm se non abbiamo fiducia, se non ci proviamo almeno, a pensa che ci sta un futuro, uno di quelli che solo se vottamm e man o facimm se no so sul chiacchiere. E le chiacchiere stanno a zero. Ci vuole solo il tempo per farlo, quello che ci hanno tolto, che ci hanno tolto dalla testa a pensare di non bastare, che quell’altro è meglio e lo devi raggiungere, il tempo di essere ciò che scegliamo di voler essere, il tempo tolto inseguendo scadenze, tram e autobus che non passano mai, il tempo che vuoi dedicarti dopo il lavoro ma che passi a dormire o davanti alle serie. E io non ci voglio rinunciare a resistere a queste insistenze.

  • T pozz di la verità. Stai ricenn sul strunzat.

  • Statt calm ca pur tu nun pazzij.

( Uno mena no schiaffo a vota mano, l’altro na capata andata male, gente si votta a spartr, finisce la).

  • Ohhhh ma comm t chiam?

  • Pepp…

  • Wa pur tu…


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4. Il filo

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Il filo
di Emanuele Siano

L’atmosfera intorno a me è disegnata con tratti leggeri e sfocati, sono già più di 2800 giorni che cammino dentro i soliti percorsi, il solito intrico di strade, viuzze, gallerie, salite, discese.

Sto andando a lavoro, a piedi, come sempre, e se ci penso sono almeno 13.340 chilometri, andata e ritorno, non considerando i 42.300 fatti in quei primi 1460 giorni di quell’altro lavoro, che era contemporaneamente al primo, ma in macchina, che sommati due part time fanno tempo pieno. La macchina è rimasta la stessa, con qualche acciacco, mentre io ho cambiato almeno 4 paia di scarpe, consumate, sfondate, ci entra l’acqua dentro; 5 jeans bucati, stracciati, che neanche le ricuciture hanno potuto dargli una parvenza di decente; sulle maglie consumate 6 ma recuperate 3, con le toppe, che così sembrano nuove, alla moda, visto che in ufficio i gomiti sono fondamentali; e non riesco a contare i pasti consumati fuori casa, fuori dalla grazia di mammà, per non contare i treni, i pullman, ah, 3 paia di cuffie per ascoltare la musica mentre il lettore mp3 è lo stesso di 12 anni fa.

Insomma tutto considerato, anche gli universi paralleli, sono un fottio di numeri e oggetti ma le strade sono sempre le stesse, e Google Maps mi dà 3 percorsi ma io li ho fatti già tutti, una 20ina di strade, tutte uguali, praticamente.

Sto andando a lavoro ed è una routine incredibile, un’abitudine percorsa con minimo 3 kg sullo scartello, pc, documenti, ombrello sulla sinistra, bottiglietta d’acqua sulla destra. L’atmosfera è ancora sfocata, oggi è un giorno strano, come se non sentissi la forza di gravità, e continuo a vedere le stesse strade ma, nascoste tra gli androni delle porte, quasi in ogni vicolo o dietro la finestra di un vascio, sento chiamare delle strane figure, che appaiono e scompaiono, con un corpo generico e umano ma il volto lo riconosco, mi è familiare. Mi sento attirato e mi avvicino.

La prima persona mi trasmette una paura incredibile, sento il sangue farsi amaro, osservo la sua bava alla bocca mentre blatera, sputando dall’alto in basso, discorsi sconnessi sull’etica del lavoro, sull’esperienza da fare, sui soldi che non ci sono per pagare, sull’impegno che dovrei mettere secondo i suoi dettami. Ha un volto che con un tic trasforma il suo genere, è un mix di codardia, sottomissione, malafede, invidia, ignoranza, acredine, avarizia, potere. Il vento soffia fortissimo mentre mi parla ma non si smuove dalla sua posizione, è come un macigno e allora mi sento pesante anche io.

Da lontano un’altra voce mi chiama e fuggo, e ho una rabbia addosso che mi fa digrignare i denti, mi aumenta il battito cardiaco, mi tiene con il fiato corto. Sotto di me si apre un abisso ma la seconda voce mi indica un ponte, e passo oltre.

La seconda persona mi vede arrivare defilato, confuso, tutto bianco in faccia. Ha un viso ricco di rughe, una parola calma, sbuffa fumo come se fosse una vecchia locomotiva che percorre fiera i deserti del West. è come se dentro avesse un universo in tumulto e ha una soluzione per ogni problema, sembra uscito da innumerevoli piccole guerre e conosce il segreto della testimonianza. Praticamente è come se non parlasse ma comunica tutto ed io osservo costantemente, imparo, per questo percorro un tratto di strada lunghissimo e non vorrei mai distaccarmi ma lui viaggia e non si ferma, ha una vita propria, e mi lascia alle mie scelte, solo. Mentre mi attanaglia questo senso di solitudine una terza voce mi incita a proseguire e gli passo vicino.

La terza persona è molteplice, ha più corpi e volti, età, generi, colori, elementi sempre diversi, che mutano costantemente ma ha un solo sguardo, armonico, contemplativo, puro e disinteressato, e ha con sé uno strano specchio, magico, con un doppio riflesso. Attraverso lo specchio riesco ad osservare sia me che lui, contemporaneamente, con un’immagine nitida, ripulita, intima. Osservo più da vicino, dentro, e sento una vicinanza incredibile, sento il suo disordine e vedo che c’è somiglianza con il mio, come se fossi io, ma ho la sicurezza che è diverso da me e questa sensazione inizia a farmelo quasi odiare. In questo preciso istante, mi abbraccia, e mi ritrovo quasi ubriaco ma stranamente felice, un po’ più leggero, e mi permette di proseguire ancora, e quindi, lo saluto e vado.

Proseguo oltre, sto per arrivare al centro, al luogo di lavoro.

Salgo le scale, prendo le chiavi, apro il cancello, chiave grigia, la prima portoncina, chiave bianca, prendo la terza chiave, nera, alzo la testa e un viso mostruoso, stampato, mi si para davanti: ha un sorriso rassicurante ed enorme, come uno smile, ma lo sguardo è ebete, rimbambito, sta lì e mi sorride, ‘sta Cosa Brutta. Inizio a combattere a distanza ravvicinata con lui, devo entrare in ufficio, devo fare il mio lavoro. Metto la chiave nella toppa e riesco ad entrare. Apro la porta, mi siedo in ufficio, rispondo a una decina mail, stampo e compilo quei documenti, rispondo a svariate telefonate. Fa freddo ed è umido, mi viene da pisciare, dietro di me ancora quel viso che diventa feroce ed è come se la sua forza fosse la mia. Scappo in bagno.

Ad un certo punto, dopo aver pisciato distrattamente, solo per esigenza, mi ritrovai allo specchio e vidi l’unità del mio viso che si scindeva nelle numerose figure che avevo incontrato fino a quel momento. Entravo e uscivo dal cesso e assumevo una alla volta la maschera, la figura che volevo. Quel sorriso ebete era ancora dietro di me quindi scappo ancora, corro dove non si può ma non trovo l’uscita, assurdo.

Ogni strada era diventata simile, ogni svolta riportava sempre lì.

Corro, freneticamente, scendo le scale, senza guardare, dimenticandomi di tutto, voglio solo tornare a casa ma inciampo in un filo. Che cazzo ci fa questa tipa con un gomitolo in mano, il cellulare nell’altra, il volto sincero, scabro ed essenziale, senza maschera, lo sguardo profondo, vasto, il sorriso che diventa un pensiero di salvezza fuori dal tempo? Ha il corpo di un albero, bellissimo, il respiro trèmulo di foglie nuove, l’odore di quella vita che rinasce attimo per attimo, sia in me che in ogni cosa fuori.

Rimango confuso, sento ancora altre voci e figure chiamarmi, volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi, lei mi viene incontro, mi prende la mano, e con la sua voce che è come un canto, mi dice: piacere, usciamo?


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3. Miseria e Nobilità

Di seguito i 10 testi inediti prodotti in occasione della serata “Se faccio un figlio lo chiamo Precario… scusate il ritardo!” del 28 dicembre 2018 al circolo Arci Marea.

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Miseria e Nobiltà
di Felice Rubino

Federico era ricco, non perché avesse fatto qualcosa che per diventarlo, era ricco e basta, come i suoi genitori e i loro genitori prima. Federico viveva in un appartamento di sua proprietà da solo, non aveva voluto ancora andare a convivere con la sua ragazza perché non era pronto. Federico passava le giornate al pc, seguiva compravendite di oggetti kitsch che non vedeva mai dal vivo, ma grazie a questi il suo conto in banca aumentava. Federico aveva anche azzeccato il momento in cui comprare i bitcoin. Federico era bello, la sua ragazza era bella, entrambi curati e depilati, sembravano splendere quando li vedevi entrare in un locale. Federico usciva con moderazione, beveva con moderazione, si drogava con moderazione, aveva amici con moderazione. Federico era laureato con il massimo dei voti in Filosofia ma aveva rinunciato al dottorato perché non avrebbe saputo cosa farsene.

Federico la mattina del suo ventottesimo compleanno trovò ciocche di capelli sul suo cuscino. Il giorno dopo gli si formarono le zampe di gallina intorno agli occhi. Nel giro di un mese federico aveva dovuto procurarsi fasce massaggianti per la schiena. Aveva comprato una macchina per il pediluvio perché gli faceva piacere. Il dottore gli disse che doveva stare attento al colesterolo, la risonanza magnetica disse che se continuava così a poco avrebbe avuto bisogno di due interventi alle ginocchia. I lobi delle orecchie di Federico erano grandi e pelosi e non aveva ancora trent’anni. Federico si ritrovò addirittura a sgridare ragazzini che giocavano a calcio sotto casa sua. Federico si fermava a sbirciare i cantieri stradali dai buchi delle recinzioni.

Una sera mentre sorseggiava il Bianco Sarti camuffato da cocktail alla moda guardò i suoi coetanei che sembravano avere una generazione e mezza meno di lui. Mezzi ragazzi mezzi uomini e mezze donne mezzi ubriachi che progettavano cambiamenti e svolte miracolose.

Mario diceva: “Derubiamo il conservatorio! Poi investiamo in puttane nigeriane e nel giro di un paio di stagioni non dobbiamo più lavorare” Mario faceva il cameriere in un bar e l’autista della pubblica assistenza.

Elisabetta diceva “Mi cerco un vecchio ricco, lo ammazzo di pompini e investo l’eredità in un ristorante in guatemala, dovrò solo contare i soldi” Elisabetta faceva i turni di sera in un call center e di giorno la sarta in nero.

Luciano muoveva la bocca ma non si sentiva niente, Federico si accorse di essere diventato sordo. Ma capì. Capì che se voleva salvarsi dall’ostioporosi a 29 anni doveva cambiare.

Federico si fece diseredare, cambiò cognime, andò a vivere da Mario per un pò, poi a Londra da Antonio, imparò il nome di tutte le stoviglie in Anglosassone. Tornò e doveva scegliere se andare a tagliare la legna per 5 euro l’ora, o distribuire volantini ai semafori. Federico si fece i calli ma nel giro di un annetto riacquistò la gioventù. Non era più bello ma era in salute, adesso capiva bene i discorsi dei suoi amici, quelli che erano rimasti, quelli che sognano di non lavorare.

Sono facili da capire sogni del genere. Lo sappiamo: i sogni ci indicano l’orizzonte, la strada, sarebbe bello essere ricchi e non lavorare. Gli amici di Federico si accontenterebbero anche di uno solo, onesto, dignitoso, non stancante, non logorante lavoro.


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2. Come stai?

Di seguito i 10 testi inediti prodotti in occasione della serata “Se faccio un figlio lo chiamo Precario… scusate il ritardo!” del 28 dicembre 2018 al circolo Arci Marea.

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Come stai?
di Rosamaria Romanelli

(parlato al pubblico/breve intro)

Io e Peppe stavamo a Budapest e camminavamo nel centro dopo essere stati in Università. Stavamo chiacchierando e l’argomento principale negli ultimi tempi è la politica ungherese: Orban contro Soros e la mia università costretta a chiudere e trasferirsi a Vienna. A un certo punto un semaforo rosso per i pedoni ci fa fermare. Nello stesso momento smettiamo di camminare e smettiamo anche di parlare ci guardiamo e ogni tanto ci facciamo il classico sguardo di intesa per dire “compa’, è una guerra”. A un certo punto Peppe diventa più serio, cambia tono e mi dice.

(letto)

“Ma lo sai, ultimamente a Salerno un sacco di gente mi chiede di te. Tutti mi chiedono “Come sta Rosamaria?”. Io rispondo che stai bene, ma tu come stai?”.

Il semaforo diventa verde, siamo nel fiume di folla che attraversa quella strada, una delle vie principali di Budapest. Turisti e lavoratori, tutti là in mezzo a correre dall’altra parte. E io con quella domanda addosso, pesante come un macigno.

Come sto?

Cammino spinta da tutta quella folla.

Come sto?

“Mi sono trasferita da tre mesi, non te lo so dire – gli dico – sicuramente meglio dell’inizio, sai… quel corso di meditazione mi sta aiutando. Posso dire di stare meglio, alla fine è il lavoro che volevo fare da tutta la vita e non posso proprio lamentarmi perché i miei sacrifici sono stati ripagati.

Ma come sto?

Camminavo con le mani in tasca, il freddo pungente dell’Est non mi permetteva di tenerle fuori per gesticolare. Una persona per correre passa in mezzo a noi, ci divide e mi dà una spallata. Noi non stavamo correndo e non dovevamo andare a prendere la metro, né scappavamo dal lavoro per tornare a casa. Attraversavamo quella strada perché stavamo passeggiando e cercavamo un posto per bere una birra e continuare a parlare.

Come sto?

Camminavo e pensavo che “è ‘na mmerda, perché sono sola e questo lavoro mi porta a stare sola e non voglio stare sola”.

Quindi, come sto?

Camminavo e dicevo a me stessa “certo che però, a stare sola ci vuole fegato, e io tutto sommato ce l’ho”.

Si, ma come sto?

Camminando provavo ad articolare questi pensieri: “qualche giorno sto bene e qualche giorno sto male. Certo, col tempo i giorni brutti – non sono diminuiti- ma almeno sto imparando a gestirli. Del lavoro non posso lamentarmi, mi permette di vivere da sola, sono indipendente finalmente”.

Silenzio. La domanda è sempre quella. Io come sto?

“Cammino tutti i giorni nelle strade di una città in cui mi sento rifugiata, mi sento senza casa. La mia università è nemica di un governo e io sono nemica sia del governo che della mia università. Non ho appeso le mie stampe in casa, perché tanto poi dobbiamo trasferirci tutti a Vienna e cambiare di nuovo tutto. Non ho comprato un tappeto, e neanche il copridivano e vorrei un ferro da stiro ma poi quando dovrò traslocare sarà un casino quindi non comprerò neanche quello”.

Come sto? Camminavo e pensavo che se dicessi che sto male, mi prenderebbero per stronza. “Ma tu vedi a questa, vive a Budapest e si deve trasferire a Vienna -la signorina- e si lamenta.”

Camminavamo e una volta arrivati dall’altra parte della strada ci fermiamo e ci guardiamo. Come sto? Ci capiamo subito. Stiamo uguale, stiamo tutti uguale.

La vera domanda è “perché?”.

Io non lo so, io continuo a camminare.