Di seguito i 10 testi inediti prodotti in occasione della serata “Se faccio un figlio lo chiamo Precario… scusate il ritardo!” del 28 dicembre 2018 al circolo Arci Marea.
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Il filo
di Emanuele Siano
L’atmosfera intorno a me è disegnata con tratti leggeri e sfocati, sono già più di 2800 giorni che cammino dentro i soliti percorsi, il solito intrico di strade, viuzze, gallerie, salite, discese.
Sto andando a lavoro, a piedi, come sempre, e se ci penso sono almeno 13.340 chilometri, andata e ritorno, non considerando i 42.300 fatti in quei primi 1460 giorni di quell’altro lavoro, che era contemporaneamente al primo, ma in macchina, che sommati due part time fanno tempo pieno. La macchina è rimasta la stessa, con qualche acciacco, mentre io ho cambiato almeno 4 paia di scarpe, consumate, sfondate, ci entra l’acqua dentro; 5 jeans bucati, stracciati, che neanche le ricuciture hanno potuto dargli una parvenza di decente; sulle maglie consumate 6 ma recuperate 3, con le toppe, che così sembrano nuove, alla moda, visto che in ufficio i gomiti sono fondamentali; e non riesco a contare i pasti consumati fuori casa, fuori dalla grazia di mammà, per non contare i treni, i pullman, ah, 3 paia di cuffie per ascoltare la musica mentre il lettore mp3 è lo stesso di 12 anni fa.
Insomma tutto considerato, anche gli universi paralleli, sono un fottio di numeri e oggetti ma le strade sono sempre le stesse, e Google Maps mi dà 3 percorsi ma io li ho fatti già tutti, una 20ina di strade, tutte uguali, praticamente.
Sto andando a lavoro ed è una routine incredibile, un’abitudine percorsa con minimo 3 kg sullo scartello, pc, documenti, ombrello sulla sinistra, bottiglietta d’acqua sulla destra. L’atmosfera è ancora sfocata, oggi è un giorno strano, come se non sentissi la forza di gravità, e continuo a vedere le stesse strade ma, nascoste tra gli androni delle porte, quasi in ogni vicolo o dietro la finestra di un vascio, sento chiamare delle strane figure, che appaiono e scompaiono, con un corpo generico e umano ma il volto lo riconosco, mi è familiare. Mi sento attirato e mi avvicino.
La prima persona mi trasmette una paura incredibile, sento il sangue farsi amaro, osservo la sua bava alla bocca mentre blatera, sputando dall’alto in basso, discorsi sconnessi sull’etica del lavoro, sull’esperienza da fare, sui soldi che non ci sono per pagare, sull’impegno che dovrei mettere secondo i suoi dettami. Ha un volto che con un tic trasforma il suo genere, è un mix di codardia, sottomissione, malafede, invidia, ignoranza, acredine, avarizia, potere. Il vento soffia fortissimo mentre mi parla ma non si smuove dalla sua posizione, è come un macigno e allora mi sento pesante anche io.
Da lontano un’altra voce mi chiama e fuggo, e ho una rabbia addosso che mi fa digrignare i denti, mi aumenta il battito cardiaco, mi tiene con il fiato corto. Sotto di me si apre un abisso ma la seconda voce mi indica un ponte, e passo oltre.
La seconda persona mi vede arrivare defilato, confuso, tutto bianco in faccia. Ha un viso ricco di rughe, una parola calma, sbuffa fumo come se fosse una vecchia locomotiva che percorre fiera i deserti del West. è come se dentro avesse un universo in tumulto e ha una soluzione per ogni problema, sembra uscito da innumerevoli piccole guerre e conosce il segreto della testimonianza. Praticamente è come se non parlasse ma comunica tutto ed io osservo costantemente, imparo, per questo percorro un tratto di strada lunghissimo e non vorrei mai distaccarmi ma lui viaggia e non si ferma, ha una vita propria, e mi lascia alle mie scelte, solo. Mentre mi attanaglia questo senso di solitudine una terza voce mi incita a proseguire e gli passo vicino.
La terza persona è molteplice, ha più corpi e volti, età, generi, colori, elementi sempre diversi, che mutano costantemente ma ha un solo sguardo, armonico, contemplativo, puro e disinteressato, e ha con sé uno strano specchio, magico, con un doppio riflesso. Attraverso lo specchio riesco ad osservare sia me che lui, contemporaneamente, con un’immagine nitida, ripulita, intima. Osservo più da vicino, dentro, e sento una vicinanza incredibile, sento il suo disordine e vedo che c’è somiglianza con il mio, come se fossi io, ma ho la sicurezza che è diverso da me e questa sensazione inizia a farmelo quasi odiare. In questo preciso istante, mi abbraccia, e mi ritrovo quasi ubriaco ma stranamente felice, un po’ più leggero, e mi permette di proseguire ancora, e quindi, lo saluto e vado.
Proseguo oltre, sto per arrivare al centro, al luogo di lavoro.
Salgo le scale, prendo le chiavi, apro il cancello, chiave grigia, la prima portoncina, chiave bianca, prendo la terza chiave, nera, alzo la testa e un viso mostruoso, stampato, mi si para davanti: ha un sorriso rassicurante ed enorme, come uno smile, ma lo sguardo è ebete, rimbambito, sta lì e mi sorride, ‘sta Cosa Brutta. Inizio a combattere a distanza ravvicinata con lui, devo entrare in ufficio, devo fare il mio lavoro. Metto la chiave nella toppa e riesco ad entrare. Apro la porta, mi siedo in ufficio, rispondo a una decina mail, stampo e compilo quei documenti, rispondo a svariate telefonate. Fa freddo ed è umido, mi viene da pisciare, dietro di me ancora quel viso che diventa feroce ed è come se la sua forza fosse la mia. Scappo in bagno.
Ad un certo punto, dopo aver pisciato distrattamente, solo per esigenza, mi ritrovai allo specchio e vidi l’unità del mio viso che si scindeva nelle numerose figure che avevo incontrato fino a quel momento. Entravo e uscivo dal cesso e assumevo una alla volta la maschera, la figura che volevo. Quel sorriso ebete era ancora dietro di me quindi scappo ancora, corro dove non si può ma non trovo l’uscita, assurdo.
Ogni strada era diventata simile, ogni svolta riportava sempre lì.
Corro, freneticamente, scendo le scale, senza guardare, dimenticandomi di tutto, voglio solo tornare a casa ma inciampo in un filo. Che cazzo ci fa questa tipa con un gomitolo in mano, il cellulare nell’altra, il volto sincero, scabro ed essenziale, senza maschera, lo sguardo profondo, vasto, il sorriso che diventa un pensiero di salvezza fuori dal tempo? Ha il corpo di un albero, bellissimo, il respiro trèmulo di foglie nuove, l’odore di quella vita che rinasce attimo per attimo, sia in me che in ogni cosa fuori.
Rimango confuso, sento ancora altre voci e figure chiamarmi, volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi, lei mi viene incontro, mi prende la mano, e con la sua voce che è come un canto, mi dice: piacere, usciamo?